Il secondo comma dell’art. 92 c.p.c. stabilisce che «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».
Va però rammentato che la Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto comma nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
Difatti, l’attuale versione è quella che risulta dall’art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, e modificato, in sede di conversione, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162. A norma del comma 2, del medesimo articolo, la disposizione si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione.
Il testo precedente era stato a sua volta sostituito dall’art. 2 l. 28 dicembre 2005, n. 263, con effetto dal 1° marzo 2006. Successivamente il comma era stato ulteriormente modificato dall’art. 45, comma 11, l. 18 giugno 2009, n. 69.
I presupposti per pronunciare la compensazione delle spese di lite erano e sono i seguenti:
- dopo la riforma del 2005: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
- dopo la riforma del 2009: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti»
- dopo la riforma del 2014: «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero»
- dopo la sentenza della Consulta del 2018: «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, o qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».
In pratica, per i giudizi ai quali si applica l’ultima versione la compensazione è sempre giustificata in caso di:
- soccombenza reciproca;
- concorso di gravi ed eccezionali ragioni;
- novità della questione trattata;
- mutamento di giurisprudenza.
Al di fuori di questi casi la compensazione disposta dal giudice è illegittima. Come pure illegittima è la condanna alle spese inflitta alla parte totalmente vittoriosa.
Al contrario, ogni qual volta vi è una soccombenza reciproca, il giudice di merito ha sempre il potere discrezionale di disporre la compensazione delle spese di lite, ed una eventuale censura in Cassazione sarebbe dichiarata inammissibile. La soccombenza reciproca, perchè sia tale, postula una pluralità di domande proposte nel medesimo processo dalle stesse parti e non può dunque essere individuata nell’accoglimento solo parziale dell’unica domanda (Cass. S.U. 32061/2022), ovvero nel rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c. (Cass. 18036/ 2022), e maggior ragione non può configurarsi in presenza di rigetto di una eccezione (Cass. 23035/2023).
Talvolta però a fronte di una soccombenza reciproca la compensazione è solo parziale (ad es. 2/3) ed una parte viene condannata a pagare la quota restante (ad es. 1/3). Il problema è: chi deve pagare?
In astratto la risposta è semplice: tenuta a pagare è la parte «maggiormente soccombente». Il problema non è però risolto del tutto: come si fa a stabilire chi è la parte maggiormente soccombente? Questo è il punto.
Se le reciproche pretese hanno ad oggetto soltanto una statuizione di condanna, la risposta è semplice: è maggiormente soccombente colui che ha ottenuto una condanna inferiore (Cass. 31444/2023). Ad es. L’attore ottiene 800 anziché 1000, il convenuto, che negava il proprio debito e chiedeva in via riconvenzionale 200, ottiene effettivamente 200; il convenuto è maggiormente soccombente.
In tal caso, il giudice, da un lato, è sostanzialmente vincolato nel ritenere il convenuto maggiormente soccombente, atteso che una diversa soluzione sarebbe illogica. Dall’altro, è però libero di stabilire la quota di compensazione, senza possibilità di sindacato in Cassazione.
Il problema si fa più complicato quando le parti hanno articolato più domande, magari aventi oggetti diversi (azioni di accertamento, costitutive e di condanna). Anche in questo caso il potere discrezionale del giudice di merito regna sovrano; tuttavia, afferma la Cassazione, per stabilire la parte maggiormente soccombente occorre avere riguardo allo “oggetto della lite nel suo complesso”.
Facciamo un esempio. Le parti discutono di un preliminare di vendita di immobile che vale 300.000,00. L’attore chiede la risoluzione per fatto e colpa del convenuto, il quale chiede a sua volta l’adempimento del contratto. Il giudice accoglie la domanda dell’attore, che viene però condannato a restituire l’acconto di 25.000,00. Ebbene, qualora il giudice ritenesse l’attore maggiormente soccombente solo perché è stato condannato, la sentenza sarebbe viziata, per il semplice fatto che oggetto del giudizio era anche la domanda di risoluzione del contratto, pienamente accolta dal giudice.
Come si fa valere questo vizio? Si tratta di un vizio di legge o di un vizio di motivazione? La risposta è: dipende. Dipende in sostanza da come il giudice ha motivato. Se scrive: “al fine di stabilire la maggiore soccombenza occorre avere riguardo soltanto ai capi condannatori”, saremmo di fronte ad un manifesto vizio di legge (art. 92, ex art. 360 n. 3). In presenza, invece, di una motivazione che afferma soltanto che l’attore è prevalentemente soccombente, sic et simpliciter, saremmo di fronte ad un vizio di motivazione (art. 132 co. 2 n. 4, ex art. 360 n. 4).
Prima di chiudere, non dimentichiamo mai che l’espressione di un potere discrezionale attribuito dalla legge, è incensurabile in sede di legittimità, a meno che essa non sia accompagnata dalla indicazione di ragioni palesemente illogiche, tali da inficiare, stante la loro inconsistenza, lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto (Cass. 35093/2023; Cass. 17424/2003; Cass. 24634/2014).
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