Il principio di autosufficienza nella giurisprudenza della Suprema Corte

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L’art. 366 c.p.c., n. 6, impone la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti (oltre che dei contratti e accordi collettivi) sui quali il ricorso si fonda.

La norma “costituisce il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza” (Cass. 25 marzo 2013, n. 7455 e la giurisprudenza ivi richiamata; da ult. tra le tante Cass. 30 giugno 2020, n. 12997; Cass. 12 giugno 2020, n. 11370), avendo la novella che ha introdotto la disposizione (il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 5) offerto una formulazione definita e puntuale del principio medesimo, già da tempo (il vocabolo compare nella giurisprudenza di questa Corte nel 1986, ma il concetto è ben più risalente) affermatosi, principalmente, quale corollario del requisito di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077).

Il principio di autosufficienza, compendiato nella previsione della “specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti”, costituisce corollario del requisito di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione a critica limitata, perchè essi, i motivi, siccome richiesti a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 4, consistono in questioni mediante le quali il ricorrente delimita l’oggetto del giudizio di fronte alla Cassazione, motivi che devono perciò necessariamente tradursi in una mirata critica alla decisione impugnata, riconducibile alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (p. es. tra le tante Cass. 24 settembre 2018, n. 22478).

Poichè il ricorrente ha l’onere di individuazione del motivo, che deve essere riconducibile in maniera immediata ed inequivocabile, oltre che corretta, ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste, pur senza l’adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica (Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931), un motivo che non indichi specificamente gli atti e i documenti su cui si fonda – e che così solleciti la Corte a ricercare quegli atti o documenti tra gli altri di cui si compone il fascicolo processuale – è perciò stesso un motivo aspecifico.

Spetta cioè in esclusiva al ricorrente dire perchè la decisione impugnata è errata, nel quadro di applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, a partire dall’analisi del pregresso svolgimento del giudizio, ed avuto perciò riguardo agli atti processuali e ai documenti in esso formatisi, fissando in tal modo il thema decidendum, mentre è compito della Corte di Cassazione verificare se il vizio denunciato – nei termini in cui è denunciato – sia o no sussistente, ponendo a fondamento della sua decisione le risultanze emergenti dagli atti e dai documenti specificamente indicati dal ricorrente.

In ciò non solo è destinato a realizzarsi il compito istituzionale della Corte di cassazione di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonchè l’unità del diritto oggettivo nazionale, ma è anche garantito “il pieno contraddittorio tra le parti… sulla base di atti e documenti specificamente indicati, con la conseguente esclusione di ogni discrezionalità del giudice di legittimità nella formazione del percorso logico posto a fondamento della sua decisione” (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2007, n. 23019).

E’ difatti palese che, se potesse ammettersi la formulazione di censure fondate su atti o documenti non specificamente indicati, finirebbe per attribuirsi alla Corte il potere di riempire le censure di contenuto, il che comporterebbe non solo un elevato rischio di soggettivismo (ancora Cass. 25 marzo 2013, n. 7455), ma assegnerebbe al giudice di legittimità – come è stato detto pur ad altro riguardo – “il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse”, lettura del dato normativo, questa, inaccettabile, “perchè sovverte i ruoli dei diversi soggetti del processo, e rende il contraddittorio aperto a conclusioni imprevedibili, gravando l’altra parte del compito di farsi interprete congetturale delle ragioni che il giudice potrebbe discrezionalmente enucleare dal conglomerato dell’esposizione avversaria” (Cass. 23 settembre 2011, n. 19443).

Indicare specificamente un atto o documento significa anzitutto dire qual è il suo contenuto, senza di che il motivo non può che rimanere confinato nell’oscurità.

In ciò il principio di autosufficienza costituisce presidio, accanto e prima ancora che della specificità dei motivi, della stessa intelligibilità del ricorso per cassazione: ed è, quella dell’intelligibilità, una ulteriore collegata radice del principio di autosufficienza, che, come si accennava, avrebbe determinato l’inammissibilità del motivo anche prima dell’introduzione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, giacchè “la sanzione di inammissibilità trova la sua giustificazione nella necessaria autonomia del ricorso che deve mettere in grado il giudicante di rendersi conto dell’oggetto della controversia, in relazione alle esposte censure, senza indagini determinate da indicazioni per relationem, e con la certezza dell’esatto intendimento del ricorrente e dei punti della decisione oggetto di censura” (Cass. 16 luglio 1964, n. 1939).

Il ricorso per cassazione deve dunque contenere in sè tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in condizione di avere completa cognizione della controversia e del suo oggetto, nonchè di cogliere il significato e la portata delle censure contrapposte alle argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. 28 dicembre 2017, n. 31082, in cui l’ovvia affermazione che, nell’ipotesi di fattispecie interessata da ripetuti interventi legislativi, è necessario indicare gli elementi indispensabili per individuare la normativa applicabile ratione temporis; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1926; Cass. 4 aprile 2006, n. 7825; da ult. tra le tante Cass. 22 giugno 2020, n. 12191; Cass. 28 maggio 2020, n. 10143).

In breve, per quest’aspetto, posto che il giudizio di legittimità è retto dal principio di autonomia del ricorso per cassazione (p. es. Cass., Sez. Un., 22 maggio 2014, n. 11308, con riguardo all’osservanza dell’altro requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa), principio che preclude alla Corte il diretto accesso al fascicolo processuale, è del tutto ovvio che il ricorrente per cassazione debba riferire ad essa quale sia, per la parte rilevante, il contenuto dell’atto o del documento, riassumendolo o trascrivendolo a seconda di quanto di volta in volta occorra, per la ragione, intuitiva, che, altrimenti, la Corte non ha modo di intendere di cosa il ricorrente stia discorrendo.

Indicare specificamente un atto o documento significa ancora, come le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto ripetutamente modo di chiarire, che il rispetto delle citata disposizione, l’art. 366 c.p.c., n. 6, da misurarsi con riguardo alla singola censura (Cass., Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16887), esige che sia specificato in quale sede processuale nel corso delle fasi di merito il documento, pur eventualmente individuato in ricorso, risulti prodotto, dovendo poi esso essere, ulteriormente, anche allegato al ricorso a pena d’improcedibilità, in base alla previsione del successivo art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass., Sez. Un., 2 dicembre 2008, n. 28547). Come è stato ribadito, l’osservanza del requisito della specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, richiede “che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur indicato nel ricorso, risulta prodotto, poichè indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, dire dove nel processo è rintracciabile” (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; di recente, tra le tantissime, sulla stessa linea, Cass. n. 9341 del 2020; Cass. n. 2520, Cass. n. 2020 e n. 710 del 2020; Cass. n. 28712 del 2019; Cass. n. 17337 del 2019).

Il dire dove l’atto o il documento acquisito al processo è rintracciabile si traduce in un adempimento intuitivo e di agevolissima attuazione (adempimento, perciò, senza dubbio armonico con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione EDU: Cass. 3 gennaio 2020, n. 27; Cass. 25 marzo 2015, n. 7455), ossia nella “localizzazione” dell’atto o del documento, i.e. nell’indicazione del fascicolo (di parte o d’ufficio, senza che occorra soffermarsi sulle differenze intercorrenti tra le due ipotesi) in cui essi, atti o documenti, sono collocati (espressa applicazione di un onere, testualmente, di “localizzazione”, si trova effettuata in numerosissime decisioni, v. tra le ultime Cass. n. 14151 del 2020; Cass. n. 14011 del 2020; Cass. n. 14010 del 2020; Cass. n. 13733 del 2020; Cass. n. 13612 del 2020; Cass. n. 13476 del 2020; Cass. n. 12997 del 2020; Cass. n. 12990 del 2020).

Va per completezza notato che la specifica indicazione, intesa quale “localizzazione” degli atti e/o dei documenti, lungi dal presentarsi quale accanimento formalistico, manifesta un’attitudine di segno esattamente opposto, ed ha in concreto reso la nozione di autosufficienza ben più elastica di quanto non fosse nella giurisprudenza precedente: se non è per lo più richiesta, dalla giurisprudenza di questa Corte, l’integrale trascrizione degli atti o dei documenti, ma è consentito “un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto” (a mero titolo di esempio Cass. 29 gennaio 2019, n. 2331), ciò è proprio perchè la “localizzazione” di essi, a condizione che siano stati anche depositati, come richiede a pena di improcedibilità il successivo art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, consente al giudice di coniugare, non discrezionalmente, ma in stretta adesione al motivo come formulato, il resoconto dell’atto o del documento ed il suo integrale contenuto.

Nè assume decisivo rilievo la circostanza che venga denunciato un error in procedendo, quale la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Difatti, le Sezioni Unite hanno confermato il principio, già più volte affermato, secondo cui, allorquando sia denunciato un error in procedendo, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale. Infatti, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2019, n. 5640).

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Avvocato, blogger, relatore in convegni e seminari. Autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate cartacee e delle seguenti monografie: Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione. Manuale di sopravvivenza per l’avvocato, Lexform Editore, 2009; Le trappole nel processo civile, 2010, Giuffrè; L’onere di contestazione nel processo civile, Lexform Editore, 2010; L’appello civile. Vademecum, 2011, Giuffrè; Gli strumenti per contestare la ctu, Giuffrè, 2013; Come affrontare il ricorso per cassazione civile, www.youcanprint.it, 2020.




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